Story of the Game

Allen Iverson: il basket "De profundis"

La partita che consacrò Allen Iverson come uno dei giocatori più forti di sempre probabilmente non la vide nessuno.

Gabriele Manieri
01.04.2021 08:38

1897. La luce penetra flebile dall'unica finestra di una cella tre metri per tre. Il carcere. Oscar è seduto sul letto, ha in mano un libercolo. Un'agenda. Scrive da ormai troppi giorni sempre la stessa frase: "Alfred devi morire".

1990. Newport News Correctional.  Allen non sa darsi pace, circumnaviga la sua cella avanti e indietro, sbatte i pugni contro le sbarre. Ha deciso che una volta uscito di prigione si batterà a favore della comunità nera. Ucciderà tutti i bianchi.

Entrambi dietro le sbarre. Entrambi condannati unicamente perché ritenuti dei "diversi": Wilde perché omosessuale, Iverson perché in una rissa pare abbia picchiato dei ragazzi bianchi. Ma non è così. I due però sono legati da un filo immaginario. Troppo facile pensare al loro essere ghettizzati. Troppo facile.

Ciò che li accomuna realmente è il processo mentale che li spinse ad essere persone migliori, simboli di comunità che riscontravano in loro un punto di riferimento, uno per gli omosessuali, l'altro per i neri.

Wilde, dietro le sbarre, concepì uno dei suoi più grandi capolavori: Il "De Profundis". Lo scrittore fu accusato di omosessualità e nefandezze sessuali proprio dal suo compagno: Alfred Douglas. Finito in carcere scrisse una lettera che fu d'esempio per tutte le generazioni future. Un modo per riscattare l'odio in gratitudine. Un passaggio possibile solo a quelle persone con una grandezza interiore fuori dal comune.

 "...In questo caso, leggi e rileggi questa lettera finché la tua vanità sarà morta del tutto. Se vi troverai in essa qualche cosa di cui ti riterrai accusato ingiustamente, ricorda che bisognerebbe essere grati per ogni colpa di cui si è accusati ingiustamente. Se vi sarà in essa un solo passo che porterà lacrime ai tuoi occhi, piangi, come piangiamo noi in carcere, dove per le lacrime non esiste distinzione tra il giorno e la notte. Sarà la sola cosa che potrà salvarti..."

Senza saperlo Iverson fece lo stesso.

La partita che consacrò Allen Iverson come uno dei giocatori più forti di sempre probabilmente non la vide nessuno.  "Prep Star" organizzato dalla Nike, un torneo per mettere in mostra i giovani talenti con meno possibilità. Iverson aveva 16 anni. Diede una lezione di basket a tutti i presenti, e non solo. Gli si avvicinò un giovane afroamericano, anche lui in carcere per una rissa con dei ragazzi bianchi.

"Cavolo, sei un campione. Oggi vederti giocare mi ha fatto capire che la mia vita non è finita. Ho tante cose da fare una volta uscito da qui".

La carriera di Iverson fu proprio questo. Un riferimento costante per tutti quei neri che sono cresciuti poveri, senza genitori ma con la consapevolezza di poter comunque far grandi cose. Di potersi garantire un futuro migliore. La "numero 3" dei 76ers è stata una delle maglie più vendute di sempre. Proprio la maglia di quel ragazzo che, in carcere, leggeva Oscar Wilde.  

"Noi che siamo in carcere, e nelle cui esistenze non c'è nessun avvenimento, eccetto il dolore, dobbiamo misurare il tempo con i palpiti della sofferenza e la ricapitolazione dei momenti amari"

Ogni momento Iverson ha sognato di essere il più grande e per molti lo è veramente stato. Il suo soprannome è figlio del suo carattere. Del suo non tirarsi mai indietro difronte alle salite. Chiedete a qualsiasi bambino nero quale sia il suo idolo. Non vi farà neanche finire: "The Answer!".

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